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Tra onde, luci e ricordi: il mare di Bresh conquista Roma

Cosa succede quando il mare incontra la Capitale? Succede che per una sera il vento di Genova soffia fino a Roma, portando con sé sale, nostalgia e quella verità semplice che solo certe canzoni sanno raccontare. Bresh è riuscito a raccontarlo con il suo Mediterraneo tour” che ha fatto tappa proprio a Roma dove, ad accoglierlo, c’è stata una vera e propria marea umana che si è lasciata cullare dalle note e da quelle emozioni che senti fin dentro le ossa.

Il buio, forse il mio momento preferito di ogni singolo concerto. Quell’attimo che sembra eterno, in cui lo stomaco si stringe e il cuore batte più forte, in attesa di vedere la reazione del pubblico all’ingresso dell’artista. E Bresh quel momento ce l’ha fatto vivere fino in fondo, trasportandoci tra le onde del suo Mediterraneo. Davanti agli occhi, una scenografia immensa: un grande relitto abbandonato, costruito come il cuore pulsante della musica. Legno, corde, vele: il palco sembra respirare. È una nave pronta a salpare verso ricordi che ancora non conosci, ma che riconosci appena li senti.

Bresh ci porta con lui nel suo personale viaggio tra i ricordi; tra quello che era e quello che è oggi. Ci porta tra le onde di un mare in tempesta, ma anche tra quelle onde leggere che ti cullano mentre il sole cade a picco sul mare regalando tramonti mozzafiato. Tutto è energia, tutto è vita e tra le note si riconosce subito la prima canzone: “La tana del granchio”. Il pubblico si muove come una marea, compatta, fluida, viva.

Le prime note si diffondono come un’onda che cresce, poi si infrange dolcemente. Non c’è un solo corpo fermo: la musica attraversa tutti, passa tra le mani alzate, tra gli sguardi che brillano sotto le luci blu. Bresh non canta solo: racconta. Ogni parola sembra uscire dal profondo, come se ogni frase fosse un frammento di memoria riaffiorato dal mare. Lo sguardo si perde nel pubblico e lì dentro si riconosce: un ragazzo con un sogno che adesso vibra tra migliaia di persone.

E come ogni viaggio in barca che si rispetti, il mare si increspa. Ci sballotta, ci mette alla prova, ci costringe a guardare indietro, verso un passato pieno di ferite e di sogni. Ci sono quelle di quel ragazzo sbarbato, partito da Genova con il mare negli occhi e la musica in tasca. Ma ci sono anche le mie, e quelle di tutti quelli che, in questi anni, gli sono stati accanto.

Lui sognava i grandi palchi, io sognavo una vita diversa. Lui cantava per sé stesso, io mi costringevo a vivere dentro le scatole che gli altri costruivano per me. Cercavamo entrambi la nostra “Angelina“, mentre raccoglievamo piccoli frammenti di vita da rinchiudere nel nostro “Svuotatasche“. E così, tra vecchie foto, sigarette spente e ricordi che non abbiamo mai avuto il coraggio di buttare, ritroviamo noi stessi. Alla fine, in questo nuovo Svuotatasche, ci sono finite le cose vere, quelle che non vogliamo perdere, anche se fanno male.

In quel momento, il palco-nave diventa metafora di tutto: un guscio che protegge, ma che al tempo stesso ti spinge a partire. E ci invita a salire tutti insieme a lui, un po’ come quei ragazzi che stretti nel suo abbraccio cantano “Problemi”. Eh no, non è un caso. Bresh ci insegna che solo insieme le cose passano, i pensieri diventano più leggeri e si diventa più forte.

Come in ogni traversata, arriva la calma. Le luci si abbassano piano, il rumore del mare lascia spazio al suono limpido di una chitarra. Sul palco resta solo lui: Bresh, la sua Genova e il suo mare. Parte “Crêuza de mä.”
È un omaggio, ma anche una confessione. Le parole scorrono lente, quasi sussurrate e per un attimo sembra che il vento del porto di Genova si sia infilato tra le mura del palazzetto. Il profumo di salsedine e di memoria.
Il mare si sente anche senza vederlo: scorre dentro le parole, nei respiri, nei fiati che accompagnano la melodia.

Poi, come se quel vento cambiasse direzione, parte “Aia che tia”. Le prime note fanno vibrare l’aria e il palazzetto si accende: migliaia di luci tremano come lanterne sul mare. Roma canta in genovese e forse non ne capiamo appieno le parole, ma quel sentimento lì lo comprendiamo perfettamente. Bresh ringrazia la sua città e noi, in qualche modo, pensiamo alla nostra.

Il momento più bello, per la sottoscritta, è stato quando è partita “Capo Horn“. Sì, lo ammetto: me lo aspettavo. Lo avevo immaginato mille volte, come si immaginano le scene che sai già ti faranno tremare. Ma viverlo è stato tutto diverso. Il pre-ritornello si ferma per un istante, quel respiro sospeso che precede la tempesta. E poi, dal lato destro del palco, tra il fumo e le luci bianche che tagliano l’aria, entra Tedua.

Il palazzetto esplode. Le urla, le mani alzate, gli occhi increduli: li sento ancora nelle orecchie. È un abbraccio tra due amici che regalano un’emozione incredibile a chi – da tempo – li voleva vedere insieme su un palco. La canzone finisce e proprio quando sembra impossibile salire più in alto, arriva Tony Effe. Parte “Dopo le 4” fanno vibrare tutto. I miei tre guilty boy su un palco a cantare la canzone che ho ascoltato a ripetizione per settimane. Un momento di pura energia, di appartenenza, di gioia collettiva.

E poi arriva la fine, ma nessuno vuole davvero che finisca. Bresh sorride, ringrazia, si prende un ultimo respiro e parte “Altamente mia.” È come tornare a casa dopo un lungo viaggio: le note scivolano morbide, le parole diventano carezze, e tutto il palazzetto si trasforma in un unico coro che canta con lui. I ricordi mi cadono addosso, un po’ come le canzoni di Venditti che strillavamo dai finestrini della macchina che sfrecciava nella notte di inizio estate. Non c’è più distanza tra palco e platea, solo un mare di voci che si muove insieme, come se davvero potessimo toccarci attraverso la musica.

E quando sembra che sia davvero finita, arriva “Guasto d’amore.” Ma questa volta non la canta dal palco: Bresh scende, si infila tra la gente, si lascia abbracciare dalla folla. È in mezzo al pubblico, circondato dai volti e dalle voci che lo hanno accompagnato per tutto il viaggio. Le luci si fanno più basse, solo qualche torcia accesa che illumina il suo volto. La voce si incrina, ma non per stanchezza: è emozione pura, condivisa, collettiva. È la chiusura perfetta, un colpo al petto dolce e crudele allo stesso tempo, che parla di verità, di vita, di tutto quello che resta dopo l’amore.

Quando le ultime note si spengono, il rumore del pubblico è un’onda che continua a infrangersi. E Roma rimane lì, immobile, con ancora addosso l’eco del mare. Quella notte il Mediterraneo non ha solo toccato la Capitale l’ha attraversata, l’ha fatta sua. E noi, per un po’, abbiamo respirato la stessa aria salata di Genova e restiamo, ancora un po’ a crologiarsi in quel mare meraviglioso che è la musica.

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