Un sabato sera, una ragazza che balla, un drink di troppo e una città che sembra diventare qualcos’altro. “Roma è l’America“, il nuovo singolo di Riovale ci racconta di questo, o forse no. Un anno e mezzo dopo Barceloneta il giovane talento di Centocelle torna con un brano che è tutto il contrario di quello che sembra.
Con Roma è l’America, Riovale firma un brano che è allo stesso tempo una hit da club e un manifesto esistenziale. Dentro un beat elettronico pulsante e ipnotico, si nasconde una scrittura tagliente, disillusa, viscerale. È il racconto di una notte apparentemente come tante, ma che in realtà diventa il simbolo di un disagio diffuso, silenzioso e feroce: quello di chi vive tra hype, FOMO e l’ossessione di dover sempre essere “ok”.
La produzione è chirurgica. Una cassa dritta, lucida, cucita addosso a una tensione che non esplode mai del tutto, ma pulsa sotto pelle. Le sonorità elettroniche costruiscono l’illusione di una festa: un club, una ragazza che balla, un bicchiere di troppo. Un lavoro eccezionale di Alxndr Morou che firma anche questa produzione sigillando una collaborazione continua che crea un immaginario chiaro dietro a riovale.
La verità, cercando di isolarsi dal sound, è un’altra. Ogni battito è un modo per tenersi in piedi, per non pensare, per non sentire. Il ritmo diventa rifugio, anestesia temporanea. Ballare è l’unica fuga possibile, anche se porta sempre nello stesso punto: dentro se stessi o tra le braccia di una tipa che non ha mai lo stesso profumo.
“Barman fammi quattro di tutto,
è il solito sabato sera in un night però con una che mi guarda e mi balla addosso,
mi trovo per sbaglio in un bagno con lei”
Il testo è il cuore pulsante di Roma è l’America. Riovale non scrive per piacere, scrive per raccontare – tra le righe – quello che altri non hanno il coraggio di ammettere. Ci parla di fuga, di dipendenze, di necessità nascoste tra le pieghe dei non detti. Perchè si, in un primo ascolto riovale potrebbe essere il solito artista pop che ci spiattella in faccia la sua vita perfetta basata sul binomio sesso e soldi, ma per chi riesce ad andare oltre, quelle parole, dicono altro.
“Pensavo che era solo sesso, fino a che voleva conoscere i miei” è il riflesso perfetto di un’intera generazione che fatica a dare nomi alle proprie emozioni, che inciampa nel momento in cui il gioco si fa reale. È una linea che dice tutto: la paura del legame, la confusione tra intimità e obbligo, l’incapacità di capire dove finisce il desiderio e comincia il sentimento.
E poi c’è quella riga scomoda, urticante, volutamente provocatoria: “Quando parli mi pari sbornia, quando balli mi pari troia”. Una frase che non ammicca, non si scusa, ma ti costringe a restare lì, a riflettere sullo sguardo distorto, stanco, disilluso con cui si guardano – e si vivono – i rapporti oggi. È l’effetto collaterale di un tempo iperconnesso, in cui tutto è immediato, tutto è performance, anche l’amore. Un tempo in cui attrazione e alienazione convivono nello stesso istante, nello stesso sguardo, nello stesso letto.
Nel brano c’è ironia, sì, ma amara. La provocazione, ma mai esagerata. La sensazione costante di essere coinvolti e distanti, di volere tutto e subito per poi sparire nel momento esatto in cui le cose iniziano a diventare vere. È il ritratto sincero di una generazione che ama senza dichiararlo, desidera senza dirselo e scappa facendo rumore.
È un brano generazionale, ma non per moda: lo è perché racconta un sentire collettivo, un disagio comune, una fame di senso mascherata da euforia. Con il suo tono cinico, sensuale, e profondamente umano, Riovale ci sbatte in faccia la verità. Ci arriva in faccia e ci mostra che viviamo tra hype e solitudine, tra felicità ostentata e bisogno disperato di silenzio.
“Roma è l’America” non è solo una canzone: è una confessione con la cassa a palla. Ascoltarla è un po’ come guardarsi allo specchio alle quattro del mattino col trucco colato e il cuore a pezzi. Sei stanco, ma sei ancora abbastanza vivo per sentire tutto.