irama rock in roma

Irama a Rock in Roma: un concerto indimenticabile tra emozione e poesia

L’aria a Roma è densa, quasi immobile. Il sole è calato da poco, ma il caldo resta sospeso sopra l’Ippodromo delle Capannelle come un mantello. Il cielo rosa regala già uno spettacolo incredibile che ci prepara alla voce incredibile di Irama. Sono le 21:45, l’ora annunciata di inizio show. Ma il palco resta buio. Nessun suono, nessuna voce. Solo il battito irrequieto del pubblico che a gran voce chiama “Filippo, Filippo”. C’è chi controlla l’orologio, chi scambia battute per smorzare la tensione, chi guarda in alto come a cercare un segno.

Tra la folla, una mamma tiene sulle spalle il suo bambino, otto anni, occhi grandi e lucidi di emozione. Indossa la bandana di Irama, quella ufficiale. È il suo primo concerto. Lei gli accarezza le guance, gli sorride e io mi trovo ad osservarli felice. Improvvisamente ho di nuovo 13 anni. Sono al mio primo concerto e quel brivido di felicità mi attraversa la schiena. Li guardo e mi ci rivedo. Sono entrambe le versioni, sono il bambino che apre le porte di un nuovo mondo, ma sono anche la mamma che gli promette che ne varrà la pena. Sono le 22:20, con 35 minuti di ritardo, si spegne tutto. E il buio si fa promessa.

Un battito. Poi un altro. Parte “Bazooka” e Irama appare come una figura disegnata dal suono: passo deciso, occhi profondi, voce ruvida e calda. Il pubblico esplode, ma è un’esplosione contenuta, carica di qualcosa di più potente del semplice entusiasmo: è desiderio, è riconoscimento. In un attimo, il ritardo è dimenticato. Irama ha già la folla nel palmo della mano.

E io sono lì, ferma, ad osservare quello che succede attorno a me. Per la prima volta non sono “vittima” del cantante, sono lì per raccontare quello che vedo. Seguono “5 Gocce”, “Ali”, “Mediterranea”, “Arrogante”. Brani cantati parola per parola dal pubblico, un unico coro che non canta con lui, canta per sé. La musica diventa specchio, sfogo, linguaggio segreto.

Le luci si abbassano. Il ritmo rallenta. Irama si avvicina al suo pubblico e parte “Lentamente”, la canzone portata a Sanremo 2025. È una carezza che graffia, un dialogo tra ciò che siamo e ciò che abbiamo perso.Le luci si tingono di blu profondo, come il mare in tempesta dopo il tramonto. Le note di “Lentamente” si insinuano piano, come se chiedessero permesso prima di entrare. Irama resta immobile, una mano sul microfono, l’altra che si apre verso il cielo. Le sue parole non sono solo cantate: sono confessate, sussurrate, a tratti quasi urlate. Il pubblico resta in silenzio, un silenzio denso, rotto solo da qualche singhiozzo, da occhi che si inumidiscono senza vergogna.

Da lì, il concerto cambia ritmo. Irama si muove, balla, interagisce. “Bella e Rovinata”, “Un giorno in più”, “Non Mollo Mai”. Il pubblico è con lui, non lo segue: lo accompagna. Ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo scambiato con i musicisti sembra parte di un rituale già scritto, eppure unico.

Poi, all’improvviso, è come se il concerto cambiasse forma. La scenografia si muove, tutto si ferma e Filippo dal palco dice due parole “questa è per chi c’è, anche se non c’è”. Parte “Ovunque Sarai” e il mio cuore perde battiti. Il mio sguardo vola verso il cielo, tra le stelle e la luna, lì dove spero siano le mie due persone. L’Ippodromo intero si trasforma in un altare laico del ricordo. Cellulari in alto, luci accese, migliaia di piccole stelle che tremano insieme alla sua voce. In quel momento ognuno canta per qualcuno. E Irama lo sa. Non dice nulla, lascia che la canzone faccia il suo dovere. E lo fa. Fino all’ultima nota.

Quando il brano finisce, il silenzio dura più del previsto. Mi asciugo le lacrime perchè si, mi sono cadute copiose sul volto. Non c’è bisogno di parlare, nessuno osa spezzare la magia. Poi, con un sorriso quasi timido, Irama ringrazia. E basta quello. Un “grazie” semplice, senza orpelli. Ma carico di tutto.

L’ultima canzone è “La genesi del tuo colore”. La folla salta, urla, balla. Nessuno è più al proprio posto. Siamo fuori dal tempo, fuori dalla città. Irama non canta più da solo, è parte della marea. Non c’è palco, non c’è barriera. C’è solo un’onda che ci travolge tutti insieme. A mezzanotte passata, con la voce rotta e il sudore sul petto nudo, Irama si congeda con poche parole: “Roma, siete il mio cuore. Grazie. Per sempre.” Poi si gira e scompare.

Resto ferma ancora un attimo. Attorno a me il pubblico comincia a svuotare l’Ippodromo, lentamente, come se nessuno volesse davvero andarsene. La mamma e il bambino non ci sono più. Ma io li rivedo. E sento ancora il brivido di quell’inizio. Roma ha avuto la sua notte. E l’ha vissuta tutta, fino in fondo.

Perché il primo concerto non si dimentica mai. Soprattutto se ti insegna che la musica può farti sentire meno solo.

Scopri gli altri articoli su Rock in roma

Comments

No comments yet. Why don’t you start the discussion?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *