“Cadavere” non è solo una canzone. È una lama sottile infilata dentro il cuore della canzone italiana, quella dei Gino Paoli e dei Sergio Endrigo, ma rivoltata, sporcata, svuotata di qualsiasi pretesa di eleganza. È come se la memoria della melodia italiana si fosse risvegliata in una casa vuota, con l’intonaco che cade e le luci al neon che tremano. Cassio, alter ego artistico di Simone Brondi, continua il suo percorso musicale fatto di cruda sincerità, immaginari stanchi e romanticismo tossico, regalando un brano che non consola ma confessa.
Il pezzo si apre con una domanda tanto semplice quanto devastante:
“Cosa diventerai? / Che fine farai?”
Da lì parte un flusso lirico spezzato, frammentario, ma potentemente narrativo. Cassio non racconta una storia d’amore, racconta l’autopsia di un legame. Lo fa attraverso versi che sembrano scritti in uno stato di veglia disturbata, tra lucidità e allucinazione:
“Non avevo mai abbracciato un cadavere prima. / Prima di te. / Prima di me.”
Il testo è un continuo oscillare tra delicatezza e brutalità, come se i due amanti evocati nella canzone fossero già fantasmi, già lontani, già finiti, ma ancora legati da un filo di carne e disperazione. La ripetizione ipnotica di “lontano da qui” assume una valenza mantrica: non è solo una fuga fisica, è un tentativo di scappare da sé stessi, dalle proprie paure, dalle proprie scelte.
Musicalmente, “Cadavere” è costruita su una struttura terzinata in maggiore, un’andatura quasi da ninna nanna dimenticata. Il brano attinge a piene mani dal repertorio nostalgico della musica italiana degli anni ’60, ma la ricopre di muffa, rumore, parole sbagliate, lasciando emergere un’atmosfera malata, onirica, soffocante. Il tutto è stato registrato in casa, tra mura stanche e vissute, contribuendo alla sensazione di qualcosa di intimo, personale, irrimediabilmente vero.
Cassio stesso descrive la canzone come:
“La cosa più romantica che posso permettermi in questa vita di merda.”
E in effetti “Cadavere” è il suo modo di parlare d’amore: non con i fiori, ma con le cicatrici. È un brano che racconta l’amore nel momento in cui non c’è più, o forse non c’è mai stato, ma ha lasciato un segno così profondo da sembrare eterno.
Il video ufficiale, realizzato da Cassio stesso, è una visione disturbante e poetica. Due figure senza volto si muovono in un rapporto che è possessione, dipendenza, silenzio. Non si sa chi siano, da dove vengano, ma ci somigliano. Sono soli, talmente soli da diventare dolci. È un’estetica che richiama il cinema spoglio, l’arte concettuale, ma anche un certo immaginario della provincia italiana, dove l’amore è sempre un po’ più tragico del previsto.
La fotografia di Mattia Zoppellaro e il mix di Marco Zangirolami completano un quadro stilisticamente coeso, malinconico ma moderno, un equilibrio tra radici e rifiuto. Il sound fonde elementi cantautorali con un’eco lontana di elettronica lo-fi, beat essenziali, autotune sottile ma funzionale. Una canzone che non si colloca in nessun genere, ma resta cucita addosso.
Cassio – alias Simone Brondi – reduce da un percorso musicale complesso e coerente: punk con i Tinkerbell, psichedelia con La Maison, canzone d’autore e malinconia nel debutto solista “19 Luglio 1944”. “Cadavere” si impone come una delle vette emotive più alte della sua carriera, anticipa il secondo e ultimo album in studio, previsto per fine 2025.
In un panorama musicale spesso dominato da superficialità e formule già scritte, Cassio resta un corpo estraneo, prezioso e necessario. “Cadavere” è una canzone che parla di perdita, di autodistruzione, ma soprattutto della struggente, violenta, inarrestabile necessità di essere amati. Anche quando si è già morti dentro.