ghali rock in roma

Ghali a Rock in Roma tra sogni, hit e inclusione

Un martedì di mezza estate in un’assolata Roma ha trasformato l’Ippodromo delle Capannelle in uno spazio aperto alla condivisione con il concerto che, più di tutti, aspettavo con ansia. Sto parlando della tappa romana del tour di Ghali a Rock in Roma. Sul palco, nessuna sovrastruttura. Solo un maxi-schermo, la sua infinita personalità e i classici giochi di luce a sottolineare i momenti chiave della scaletta. A dominare, però, è stata la musica e un pubblico trasversale che ha accolto e restituito un amore incredibile.

Un racconto in musica, tra successi e visione

L’apertura con Dende segna subito il tono dello spettacolo: ritmo incisivo, presenza scenica controllata, e un suono pulito che lascia spazio alla parola. L’entrata da divo a cui ci ha abituato negli ultimi live estivi ci mostra il dualismo di un artista che sa essere irrangiungibile e vicino allo stesso tempo, dopotutto è solo un ragazzo chill. Da lì, Ghali costruisce una narrativa coerente, in equilibrio tra leggerezza e introspezione.

La scaletta è lineare con brani come Ninna Nanna, Ricchi Dentro, Boogieman e Paprika. La musica scorre senza sbavature, affiancata da una presenza scenica che raramente ho visto sul palco. Ghali è uno showman: balla, si diverte, dona tutto se stesso ad un pubblico che non vede l’ora di restituirgli tutto l’amore.

Non mancano i pezzi riflessivi, quelli che ci scorrono addosso lasciando un velo di consapevolezza sul mondo in cui viviamo. Dopotutto se siamo tutti insieme al concerto di Ghali non siamo persone abituate al girarci dall’altra parte. Ci sono i momenti più distesi con Marijuana in cui ci invita ad accendere (chiedendo scusa a tutti i genitori presenti) o Wily Wily, ma c’è anche l’altra faccia con Habibi, Cara Italia e Casa Mia in cui ci prende per mano verso il cuore del suo progetto artistico: identità, appartenenza, trasformazione, inclusione.

Ghali ci stringe a sè in un abbraccio che profuma di pane appena sfornato, un profumo non per tutti ma che ci riporta nelle stradine di un paese che ci riporta a casa. Ecco si, Ghali ci riporta a casa attraverso la sua musica, le sue parole, il suo essere sempre sè stesso, fin dagli inizi. Dialoga con il suo pubblico, fatto di giovanissimi pieni di sogni tanti di loro hanno un messaggio chiaro cucito addosso che possiamo ritrovare tra quelle bandiere che parlano senza fare rumore: le bandiere della Palestina. Alcune sventolano alte, altre sono sulle spalle di ragazze e ragazzi, qualcuna abbracciata come un mantello, altre disegnate sul volto. Non sono accessori. Non sono provocazioni. Sono segni visibili di un’appartenenza che parla senza bisogno di urlare.

Ghali non le nomina direttamente, ma le vede. E non serve altro. Il suo modo di esserci è sempre stato politico nel senso più autentico del termine: raccontare chi si è, da dove si viene, e che cosa significa farlo in un paese che ti vuole spesso più simbolo che persona. Durante Cara Italia, la presenza di quelle bandiere assume una forza silenziosa, ma inequivocabile. Il testo – “Cara Italia, ti voglio bene…” – si fonde con il gesto di chi tiene quella stoffa tra le mani come se contenesse storie, famiglie, verità da ricordare, case distrutte e genocidi che non si ha il coraggio di rendere reali.

Non è una scenografia. È parte del paesaggio emotivo del concerto. È il riflesso di un’identità collettiva che Ghali, anche senza proclami, ha sempre contribuito a legittimare. In un momento storico in cui parlare di Palestina significa anche esporsi, il fatto che tra la folla ci siano decine di bandiere è un atto di fiducia: nel contesto, nell’artista, nella possibilità di essere visti per intero. Non solo come pubblico, ma come persone. Ghali, con la sua presenza, non alimenta il rumore. Ma lascia spazio al significato. E in quella scelta — di non sovraccaricare, di non strumentalizzare — c’è forse la forma più matura di presa di posizione: accogliere, senza spiegare. Riconoscere, senza semplificare.

Inseguite i vostri sogni, credeteci, fatelo per tutte quelle volte che la mattina non volevate alzarvi, ma avete trovato comunque la forza. Fatelo per la vostra famiglia, per i sacrifici, per le lacrime e il sudore” è questo che Ghali ha voluto dire a tutti quei ragazzi che lo stavano ascoltando. Una traccia concreta, una consapevolezza che fa male, ma serve: nella vita non è sempre tutto facile, ma un mattone dopo l’altro si costruiscono le case.

Uno dei momenti più memorabili arriva quando invita sul palco una giovane fan per duettare su Dende. Il risultato non è un siparietto, ma un vero scambio. La ragazza sorprende con un’ottima strofa rap, il pubblico esplode in un applauso genuino. È questa la cifra dell’intero live: spontaneità, apertura, riconoscimento reciproco.

Il tempo scorreva inesorabile, i concerti sono così: li aspetti talvolta per anni e poi volano via come la bella stagione. Ho quindi tolto il telefono e mi sono goduta quel che succedeva attorno a me. Ho osservato i volti delle persone aprirsi in sorrisi meravigliosi, ho conosciuto un ragazzo al suo primo concerto che ha perso la voce ma non ha perso neanche una nota, ho ballato insieme a sconosciuti e mi sono sentita parte di qualcosa di più grande, più intenso, più vero di quanto non mi sia mai capitato. E non poteva che essere altrimenti con un artista come Ghali. Uno di quelli che riesce a farmi ballare, pogare, urlare, ma riesce anche a spaccarmi il cuore in mille pezzi.

“22:22”, “Barcellona”,”Niente Panico” mi hanno dato il colpo di grazia. Un cuore ferito che ancora oggi si fa tante domande senza ricevere risposte, ma Ghali – che a quel punto era fin troppo vicino per non far andare in cortocircuito tutto – mi ha in qualche modo sbloccato. Ho pianto, tanto. Soprattutto dopo che le luci si sono spente e mi sono ritrovata in macchina da sola verso casa. Sono scesa a patti con la realtà, quella dura, cruda, difficile che personalmente non riesco mai ad accettare: le cose finiscono, le persone cambiano e i rapporti si rompono. Restano i ricordi, quelli che arrivano all’improvviso e ti fanno sorridere con nostalgia. Una cosa grazie a questo concerto l’ho capita. Quando tutto crolla, l’unica cosa che conta è avere una mano a cui aggrapparti tenendo gli occhi chiusi e che ti ripeta “da quest’anno niente panico”.

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