“Carnevale” è l’ultimo brano del cantautore abruzzese Dile. Un brano intimo in cui emerge il sincero e doloroso grido di chi nel silenzio – solo apparente – vive una battaglia interiore con la propria testa. Una guerra quella dei dca, che in Italia colpisce circa il 5% della popolazione, in particolare la fascia adolescenziale.
Mi perdonerete se in questa recensione vi aprirò il cuore. Ho provato per troppi giorni a limitarmi, provando a raccontarvi esclusivamente il meraviglioso testo, la ritmica, il suono della chitarra o la melodia dolce che richiama l’autunno, ma putroppo non ci riesco. “Carnevale” non è una semplice ballad che metteresti in riproduzione casuale in una fresca serata di metà settembre, magari mentre sei in compagnia e sorseggi vino rosso davanti al fuoco, no. “Carnevale” è qualcosa di più, è un pezzo che ti costringe a metterti davanti allo specchio e ti parla cercando di far battere un cuore solo e triste che si è arreso agli eventi della vita.
Fin dal primo ascolto, infatti, è stato difficile per me restare lucida. Di conseguenza mi sono messa lì, con pazienza, ad ascoltare questo brano più e più volte, segnando tutto e cercando di raccontare tutto senza dimenticarmi di nulla, senza tralasciare neanche una singola emozione perchè, dopotutto, la musica non è altro che un’emozione condivisa da anime che non si conoscono tra loro, ma che per magia si ritrovano tra le note.
Lei che scarabocchia su un foglio di carta
E dedica canzoni a chi non le merita
Lei ama alla follia ma non immagina
Che una relazione tossica la cambierà
Beve tisane prima di dormire
Manda messaggi a chi l′ha gia fatta soffrire
Lei è quella che indossa sempre una taglia più grande
Lei è una farfalla ma si sente elefante
Più volte, prima ascoltando e poi leggendo questo testo, mi sono chiesta se Dile avesse messo delle cimici nel mio telefono. Mai, un artista è riuscito a rappresentare, così bene, ogni mia sfumatura. E quindi eccomi, mi tolgo per un attimo il mantello, e racconto – senza freni – quello che questa canzone ha significato per me.
L’ansia che ti assale, quella necessità spasmotica di dover tenere tutto sotto controllo. Scarabocchi su scarabocchi abbandonati soli agli angoli di pagine di appunti, penne mangiate per mandare via quel senso di vuoto, tisane per fermare la fame e placare i pensieri che crescevano sempre di più. Un solo corpo come fa a reggere il peso di una testa che fermenta domande? Non ci riesce. Lascia andare le cose importanti, per trovare spazio per quei macigni immensi che non vanno via. E quindi eccoli li quei meravigliosi sensi di colpa, tutti quei fantastici “non sono abbastanza”: mai abbastanza bella, mai abbastanza magra, mai abbastanza intelligente, mai sveglia a dovere, troppo buona, troppo precisa, troppo me, troppo o troppo poco.
E sono proprio questi tarli nel cervello, a farti vedere tutto nero. Cominci a comprare vestiti sempre più larghi – prima per nasconderti, poi per caderci dentro – e ti senti costantemente fuori posto. Alla costante ricerca di quell’amore che tu sola, purtroppo, non riesci proprio a darti. In bilico, con un piede in quello che eri e l’altro in quello che sei nella tua testa che non coincide con quello che vedono gli altri.
Lei che si nasconde sempre dentro le canzoni tristi
Si giudica allo specchio anche se odia i pregiudizi
Quando s’innamora non le viene fame
Lancia le monete dentro le fontane
Cerca gli occhi di suo padre
Nelle storie complicate
Ama stare sola ma non è capace
Mette una maschera anche se non è Carnevale
E quando tutto attorno a te crolla, quando ti senti vacillare e non ti ricordi chi sei, dov’è che vai? Io nelle note di una vecchia canzone d’amore che cantavo con i miei nonni, tra la musica. Quel luogo magico in cui posso rintarnarmi, farmi piccola piccola, chiudermici dentro e riparandomi dalla pioggia battente che sono i miei pensieri. E scappo, mi nascondo dallo specchio, da quei giudizi cattivi che mi sono data, per anni e anni, quando vedevo quella luce spegnersi lentamente dietro uomini tossici. Dei vampiri energetici che – senza accorgemene – mi rubavano la vita regalandomi esclusivamente sogni costruiti su castelli di carta, un’alitata e non c’erano più.
E quindi avanti il prossimo. E mentre finisco le monete da lanciare a Fontana di Trevi continuo a desiderare di trovare gli occhi di mio padre in quelli di omuncoli indecisi e fragili, ma che ovviamente non trovo mai. Una condanna l’amore: saper amare, ma riuscire ad accettare l’amore dell’altro. Chiudiamo il mondo fuori, mettiamo la maschera di felicità e quello che c’è dentro resta segreto.
Le cicatrici bruciano
Solo se cambia il tempo
I ti amo detti male ormai
Si perdono nel vento
In lei la voglia di crescere in fretta
Con le ali spezzate
Non sa cosa cerca
Un passato di merda da dimenticare
Lei dice che è stata addestrata ad amare
Da uno stato che crede sia tutto normale
Perché restare in silenzio è una resa sociale
Anche se sembra l′unica cosa da fare
Una condizione generazionale. Una gabbia di problematici costretti a correre in un mondo che gira troppo velocemente. Non ci è permesso piangere, rallentare e buttare via il dolore. Ci ritroviamo a ferire gli altri, mentendo per sentirci amati, urlando parole che tagliano per non affezionarci, sussurando “ti amo” tra le labbra per non farci sentire da quel vento che porta via+ tutto tranne gli anni che, quando soffri, sembrano non passare mai. Quelle cicatrici che bruciano al primo cambio di stagione, di umore, di occhi castani che si susseguono senza tregua e tu in silenzio ti accontenti delle briciole e accetti quella distanza sociale in cui siamo tutti, tristemente, impriogiati. E non importa a nessuno se poi vai in bagno, ti togli la maschera e sputi via quel dolore. E’ meglio tacere, non comunicare, non urlarlo quel dolore perchè tanto – prima o poi – passerà da solo.
Buttato fuori quel dolore poi ci si alza, ci si asciugano gli occhi, ci si guarda allo specchio e soddisfatti ci si infila la maschera più bella che si possiede, cercando la vittima di quella sera che poi, magari, – se solo ci si desse la possibilità di guarire – potrebbe essere la persona giusta per ricominciare a vivere.
E così, “Carnevale” non è soltanto una canzone, ma un riflesso crudo e sincero di quello che molti di noi vivono ogni giorno, intrappolati in una battaglia invisibile con sé stessi. Dietro ogni parola, dietro ogni nota, c’è una storia, un peso che spesso non riusciamo a condividere con nessuno, nemmeno con noi stessi. Ed è proprio questa la potenza di questo brano che Dile ci ha regalato perchè ci obbliga a guardarci dentro, a riconoscere quei tarli che ci consumano lentamente, ma ci offre anche un rifugio, un posto sicuro in cui possiamo lasciarci andare, anche solo per pochi minuti, anche se con il viso sommerso dalle lacrime.
“Carnevale” è una canzone che non giudica, che riesce ascoltare, ad accoglie il dolore, trasformando i pensieri in musica e ricordandoci che, anche quando ci sentiamo soli, c’è sempre qualcuno che può capire, attraverso quelle stesse note che ci avvolgono quel dolore che abbiamo dentro. Dobbiamo solo lasciarlo andare.
Perciò grazie Fra per aver dato voce a tutti quei pensieri che girano nella mia testa, per aver compreso senza giudicare e per essere stato quel faro in mezzo al mare in cui ricercare, per un pò, la calma.